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14/06/2018.
 
Il metodo fu il modulo tattico più diffuso ed importante degli  anni ’20 e ’30 del Novecento, ma era così valido da essere ancora oggi impiegato. Esso era o meglio è un 4-3-3. Quattro difensori schierati a zona, due centrali e due laterali. Tre centrocampisti, uno centrale detto centromediano metodista e due laterali, detti interni. Tre attaccanti, centravanti e due ali molto larghe. In fase difensiva, uno dei due centrali fungeva praticamente da libero (non esisteva il termine di “libero”, ma vi era la funzione) dietro alla linea dei difensori, mentre il  centromediano svolgeva lo stesso ruolo dietro alla linea dei  centrocampisti oppure marcava direttamente il centravanti avversario. In fase offensiva, i due terzini laterali salivano sulle fasce ed i due interni si spostavano in appoggio agli attaccanti, mentre il centromediano diveniva il regista della squadra.
Il cuore tattico del metodo era quindi il centromediano, che per la sua posizione era il fulcro della squadra sia in fase difensiva, sia offensiva. Il calciatore che lo interpretava doveva essere un giocatore completo, capace di fare da marcatore ed incontrista, con un corretto controllo di palla e doti di lancio superiori alla media, aggressivo il giusto ma assieme con buona visione del gioco.
In Europa si parla  ancora oggi di centromediano od in alternativa regista arretrato, mentre in Sudamerica è invalso il termine di “volante”, che è un nome proprio di persona divenuto sinonimo di un ruolo. Esso deriva da Carlos Volante, grande centrocampista argentino di origini italiane (i suoi genitori erano nativi di Alessandria) che giocò nei campionati argentino, italiano, francese, brasiliano. Tale fu la sua bravura che il centrocampista arretrato davanti alla difesa in Sudamerica prese il nome appunto di “volante”. Questo italo-argentino fu senz’altro un campione, ma quando giocò in Italia non riuscì a trovare posto nella squadra incontrastata dominatrice di quegli anni, la Grande Juventus dei cinque scudetti consecutivi, poiché nel suo ruolo vi era già un altro oriundo, persino migliore di lui: Luis Monti.
Egli nacque a Buenos Aires il 15 maggio 1901 ed iniziò a giocare nel San Lorenzo de Almagro, passando poi alla regina del calcio bonaerense, quel Boca Juniors che è la società più famosa e vincente di tutto il continente americano. Le sue qualità lo portarono ad essere titolare nella nazionale dei gauchos, con cui giocò tre finali, tutte contro gli arci-nemici dell’Uruguay: la vittoria nel Campeonato Sudamericano del 1927 (sarebbe la attuale Coppa America); la sconfitta nella finale della famosa olimpiade di Amsterdam del 1928, che richiese due partite per essere decisa; l’altra sconfitta nella finale della prima Coppa del Mondo disputata, l’edizione 1930 in Uruguay.
La finale di Montevideo rischiò di portare alla fine la carriera di Monti. Essa si era giocata in un clima che sarebbe eufemistico dire infuocato. La rivalità fra Argentina ed Uruguay era fortissima e gli animi erano accesi. Lo stadio da 100.000 spettatori era presidiato da un esercito di polizia. L’arbitro incaricato richiese agli organizzatori tre condizioni: un reparto speciale di polizia per garantirgli l’incolumità fisica sul campo da gioco; un biglietto per la prima nave che salpasse da Montevideo subito dopo la conclusione della gara; una assicurazione sulla vita. I calciatori di entrambe le compagini avevano ricevuto minacce di morte, specialmente Monti a cui qualcuno promise di sterminare la sua famiglia, uccidendo la madre e la sorella. Si vociferava che questi biglietti giungessero da capi della malavita. Il nostro, preoccupato per i suoi familiari a cui rimase per tutta la vita molto legato, chiese all’allenatore di non scendere in campo, ma il tecnico non volle privarsi del campione. Monti giocò una finale sottotono e mancò anche la rete che avrebbe portato l’Argentina sul 3-1. L’Uruguay rimontò e vinse per 4-2.
Al ritorno in patria, Monti fu accusato dalla stampa argentina e divenne per il paese il capro espiatorio per una sconfitta bruciante. Egli smise di giocare e si mise a fare il pastaio, volendo soltanto essere dimenticato. Ma qualcuno dall’altra parte dell’oceano si ricordava di lui e delle sue doti fuori dal comune. Edoardo Agnelli, il primo Agnelli presidente della Juventus, stava costruendo la squadra del Quinquennio aureo e pensò di richiamare sui campi di gioco un calciatore straordinario, per quanto non più giovane. Convinto dall’inaspettata offerta, Monti arrivò a Torino fuori condizione ed in sovrappeso, mettendosi però in poco tempo in forma con allenamenti durissimi. Installatosi nella sua posizione davanti alla difesa, divenne uno dei maggiori campioni di una formazione tutta d’oro dal portiere al centravanti. Essendo un oriundo, aveva ottenuto la cittadinanza italiana e diventò titolare anche nella nazionale italiana, con cui si prese la propria personale rivincita per la disfatta di Montevideo. Nella finale della Coppa del Mondo di Italia 1930 egli giocò e vinse con i suoi compagni. Monti divenne così l’unico calciatore ad aver disputato due finali del campionato del mondo di calcio con due nazionali differenti.
Questo calciatore era soprannominato Doble Ancho oppure El Tigre, facendo riferimento rispettivamente alla sua forza fisica ed alla sua ferocia. Monti fu aggressivo e violento in un’epoca calcistica particolarmente brutale rispetto a quelle posteriori. Erano tempi in cui i difensori tracciavano una linea per terra con i tacchetti minacciando gli attaccanti di spaccargli le gambe se osavano superarla, eppure El Tigre riuscì a distinguersi per la durezza dei suoi interventi. Nelle competizioni internazionali a cui partecipò fu regolarmente accusato dalla stampa di ”brutalità”, persino da quella argentina ed italiana. Egli era un duro fra i duri del calcio, tale da superare la media di cattiveria dei difensori delle pampas o della “Banda oriental”, notoriamente truculenti. Monti provocò una rissa nella finale del 1927 del Campeonato Sudamericano, quando prese a pugni diversi uruguagi. Lo stesso avvenne nella Coppa del Mondo del 1930, quando un suo fallo plateale in Argentina-Perù condusse ad una rissa in campo e sulle tribune. Molti suoi avversari dovettero uscire dal campo infortunati, fra cui attaccanti rinomati come Schiavio, il famoso centravanti austriaco del “Wunderteam” Sindelar, il cecoslovacco Svoboda messo fuori uso nella finale del ’34… La ferocia agonistica di Monti era tale che persino l’allenatore dell’Italia, il grande Vittorio Pozzo, giunse a rimproverarlo.
Si sbaglierebbe e di molto però ad immaginare El Tigre quale un picchiatore durissimo e nient’altro. Monti aveva doti tecniche notevoli, fra cui spiccavano specialmente prodigiose doti balistiche. I suoi lanci erano telegrafati con precisione anche a distanza di 40-50 metri e con rara abilità nel giungere agli esterni. Questo eccezionale tiratore spesso segnò da fuori area o da calcio di punizione. In Italia, con la Juventus realizzò 22 reti in 263 incontri, non poche per un giocatore posizionato davanti alla difesa.
Monti era inoltre un incontrista molto difficile da superare, perché univa tecnica, potenza e cattiveria. Ad onta di un fisico tarchiato, si muoveva scegliendo bene il tempo e servendosi sovente di scivolate per stroncare le avanzate avversarie. Dopo una chiusura decisa sfoggiava un palleggio pulito e preciso.
Sebbene non fosse alto, il tempismo e lo stacco facevano di lui anche un buon colpitore di testa.
Come ogni centromediano che si rispetti, Monti possedeva buona visione del gioco e sapeva sia fare il “libero davanti”, sia dettare i tempi e le geometrie ai compagni.
Il suo difetto era la lentezza. Detto “L’uomo che cammina”, pur essendo abbastanza mobile non aveva accelerazione e procedeva con passo greve.
A parte questo limite, egli fu un calciatore completo. Combattivo e tatticamente intelligente, forte fisicamente e con ottima tecnica, Monti fu uno dei più grandi interpreti del ruolo di centromediano metodista e sicuramente il migliore che mai abbia giocato in Italia.
La sua fama era tale che,  quando gli azzurri di Bearzot andarono in Argentina per la Coppa del Mondo del 1978, lo vollero con sé in ritiro ogni giorno.
 
Marco Dellamula
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