Omar Sivori image
19/04/2018
 
 «Omar Sivori è un vizio». Soleva ripetere l’avvocato Giovanni Agnelli con un accostamento tanto colorito quanto efficace. Omar arriva da Buenos Aires nell’estate del 1957, grazie al programma del dottor Umberto Agnelli, che esige il rilancio della Juventus dopo cinque stagioni di vacche magre. Omar è uno degli Angeli dalla Faccia Sporca del calcio argentino. Non è alto, ha un baricentro piuttosto basso, dettaglio importante per un calciatore, una zazzera corvina e lo sguardo pungente di chi ti vuole prenderti in giro. Il resto della storia non ha misteri. Su di lui sono stati versati torrenti di inchiostro. Il suo è un calcio diabolico, cinico, quasi maligno, che nasce dal piede di un prestigiatore fatto per pungere i difensori e divertire il pubblico. La scuola argentina gli ha insegnato che innanzitutto conta il divertimento, lo spettacolo, il numero a effetto del giocoliere. Omar, però, è anche essenziale. È perfetto nel profilo, la posizione del corpo rispetto alla palla.
 
Quando corre in linea retta verticale, per superare meglio chi gli si affianca si esibisce in ripetuti tocchi prima di cambiare direzione in diagonale, d’improvviso, con carezza d’esterno, proprio in mezzo alle gambe dell’avversario che sta effettuando la normale falcata. È il momento del coup de théâtre, il famoso tunnel. Questione di tempo e di coordinazione. Il pubblico delira. Omar è imprevedibile e fantasioso quanto istintivo. La sua grandezza si definisce soprattutto nella capacità di mantenersi freddo in area di rigore, là dove i calciatori di solito perdono la testa con entrate tempestose.
Per lui tutto è un gioco per ragazzi. Gli avversari non fanno complimenti ma Omar è astuto come una volpe e difende la palla sollevando e inclinando il piede a protezione della stessa, in modo che l’avversario calci contro la pianta della sua scarpa. Quando supera il portiere, lo fa con irriverenza, mai di forza e piuttosto con perfida delicatezza. Sfrutta con estrema abilità gli assist di John Charles, un gallese stupendo per generosità e forza penetrativa: «C’era il desiderio di fare qualcosa di speciale, di giocare con gli avversari. Per cui, giocavo con i calzettoni abbassati per far vedere che non avevo paura; c’erano i tunnel, i dribbling, tutto quello che si poteva fare per innervosire i rivali. Io, poi, sentivo moltissimo il pubblico, non riuscivo a far finta di niente. E i miei compagni si divertivano tantissimo con queste mie esibizioni».
È un emotivo: quante volte lo si vede sbiancare prima di una gara importante. È terrorizzato dai viaggi in aereo. In campo non esibisce un bel carattere: è infatti squalificato per trentatré giornate complessive. È il suo tallone di Achille. Il tallone di un campione immenso: «Io e Boniperti avevamo una concezione totalmente diversa del calcio e non riuscivamo ad andare d’accordo. Tutto lì, avevamo dei caratteri forti e inconciliabili. In campo, però, questo dissidio non aveva alcuna conseguenza; si giocava senza pensare alle differenze o alle polemiche».
Tanti sono gli aneddoti da ricordare. In un Juventus-Sampdoria portò la sua irrisione verso gli avversari a un punto estremo: scartato anche il portiere, si fermò sulla linea con il pallone sotto la suola, aspettando il recupero del difensore avversario, e quando il poveretto (Vincenzi) si avventò a corpo morto, spostò il pallone indietro mandandolo a vuoto, per poi appoggiarlo in rete: «Stavamo vincendo 3-0 con il Padova e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto e, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi e insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso la mia sinistra e non la sua. Non ci cascò e continuò a odiarmi».
All’atto della presentazione, Sivori fece qualche palleggio davanti agli occhi dell’ Avvocato, il quale, da grande intenditore, gli fece notare che era bravo, ma che non sapeva usare il piede destro. Omar prese il pallone e fece tre o quattro giri di campo palleggiando con il sinistro, senza mai far cadere il pallone. Poi si fermò davanti all’ Avvocato e con la sua naturale sfrontatezza disse: «Secondo lei, cosa ci dovrei fare con il destro?».
Una mattina Sivori si presentò all’allenamento con gli occhi gonfi di sonno; i compagni stavano già facendo i soliti giri di campo da una ventina di minuti. La giornata era bella e Omar si sdraiò sull’erba. Arrivò Gren, il Professore, che era allenatore della Juventus, affiancato da Carletto Parola. Gren si sdraiò di fianco a lui e gli passò il pallone sul piede; Omar, sentendo la palla, aprì gli occhi e si mise a palleggiare, passandosela dal destro al sinistro, dal sinistro al destro, sempre rimanendo coricato. Quindi passò il pallone al Professore, anche lui sdraiato sull’erba, e diedero vita a un numero da circo, da autentiche foche del calcio. A un tratto si alzò e piazzò la palla sulla lunetta dell’area di rigore; scommise con Gren e Parola, sulle traverse e sugli incroci che avrebbe colpito. Ne fallì uno su dieci. Ogni tiro era annunciato: incrocio dei pali sulla sinistra, palo interno sulla destra, traversa centrale. E così fece.
Erano anni molto difficili per gli attaccanti, soprattutto quelli dotati di grande talento, come il Cabezón. I difensori erano soliti tracciare, con i tacchetti, una riga fuori dall’area di rigore minacciando il malcapitato attaccante di entrare duramente se l’avesse superata. Sivori non solo la oltrepassava allegramente, ma aveva la fissazione di umiliare l’avversario facendogli tunnel e, magari, di ritornare a sfidarlo per farglielo una seconda volta. Così, un giorno a Torino, lo stopper del Catania, tale Grani, lo minacciò, dicendogli che, al ritorno, gli avrebbe spaccato una gamba. Omar, con molta calma, accettò la sfida, avvertendo il difensore di affrettarsi a farlo, altrimenti se ne sarebbe pentito. Detto e fatto; dopo pochi minuti del match del Cibali, del 26 febbraio 1961, il Cabezon entrò con il piede a martello del povero Grani, distruggendogli il ginocchio.
Sivori realizza 167 reti nelle 253 partite disputate in maglia bianconera. Vince tre scudetti e due Coppe Italia e si aggiudica nel 1961 il Pallone d’Oro. Si trasferisce al Napoli nel 1965 per incompatibilità di carattere con Heriberto Herrera, il Sergente paraguagio. «Sivori come Coramini», aveva detto il Ginnasiarca. «Purtroppo, si arrivò al distacco definitivo. Non riuscivamo a intenderci e a concepire il calcio nella stessa maniera. Me ne andai io, nonostante la stima della società, perché non mi sembrava giusto porre il dilemma “o Sivori o Herrera”. L’allenatore doveva restare ed io andare, non potevamo restare insieme. Inizialmente, pensai di tornare in Argentina, ma alla fine mi convince Flavio Emoli, ex capitano juventino approdato al Napoli, a tentare un’altra avventura italiana». Per Omar, da quel giorno, cominciano a sognare i tifosi partenopei (foto).
 
Stefano Bedeschi
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