22/05/2018
Gli inglesi rivendicano la paternità del gioco del calcio e sostengono che fra le regioni del loro impero, che comprende il commercio internazionale, il parlamento, le bevute al pub, le navi oceaniche, la massoneria, i parrucconi in tribunale e la nebbia sul Tamigi, vi sarebbe anche il sacro football. Noi italiani, assai meno orgogliosi dei cugini della perfida Albione ma con una storia incomparabilmente più vecchia e ricca, sorridiamo alle loro rivendicazioni da snob e facciano notare, a voce bassa e senza dar importanza alla cosa, che le remote origini dello sport (ahimè, un vocabolo della lingua di Shakespeare!) più diffuso al mondo si ritrovano nel Belpaese, all’ombra di Palazzo Vecchio e dell’alata cupola del Brunelleschi. Il calcio sarebbe fiorentino, quasi quanto la Commedia del ghibellin fuggiasco, ma come lo sfortunato Poeta sarebbe andato ramingo ed esule per il mondo, sbarcando sulle bianche scogliere di Dover e lì facendo fortuna.
Tutto questo sarà anche vero, storicamente vero, ma non artisticamente vero. Perché se a Firenze è comparso il primo embrione del gioco, se a Londra ha avuto fissate le regole, è in tutt’altra terra che esso è nato come opera d’arte. Dobbiamo varcare l’Atlantico ed approdare in Argentina, fra la sterminata metropoli di Buenos Aires, in cui ogni quartiere è una città a sé, e l’ancora più sterminata pampa popolata più da tori che da uomini. Nessun paese al mondo ha dato tanti grandi campioni al calcio ed in nessun altro sono esistiti tanti artisti della pedata al balon comparabili ai romantici e malinconici argentini. Il calcio come arte è argentino quanto il tango e se la Selección ha vinto solo due mondiali è per ragioni, dalla potenza politica alla disorganizzazione cronica della Federazione nazionale albiceleste, che con lo sport hanno poco a spartire.
Ogni epoca calcistica ha avuto almeno un sommo calciatore argentino, che ha strabiliato il pubblico, rinfrancato i compagni ed atterrito gli avversari con le sue doti tecniche: ora è Messi, collezionista di primati sportivi; prima era il carismatico Maradona; un uomo mezzo italiano e mezzo indio, tale Omar Sivori, è ancora oggi ritenuto da molti il miglior calciatore argentino di sempre e peccato che fosse così anarchico ed individualista sul campo; Di Stefano rimane un esempio insuperato di giocatore completo e multiforme, capace di coprire ogni ruolo, al punto da far impallidire come factotum il barbiere di Siviglia. Ma scendendo ancora più indietro nel tempo troveremmo i grandi del River Plate negli anni ’40, mentre negli anni ’30 incontreremmo il patriarca dei ballerini di tango con le scarpe bullonate: Raimundo Orsi detto Mumo.
Il suo nome non dirà nulla alla quasi totalità degli appassionati di oggi, ma egli fu uno dei migliori di tutti i calciatori degli anni ’20 e ’30 e leggenda vivente in Argentina per decenni, prima che inevitabilmente la polvere del tempo si posasse sulla sua gloria e la sua memoria.
Classe 1901, Orsi era cresciuto nell’ Independiente, società naturalmente di Buenos Aires, naturalmente legata ad un quartiere dell’immensa capitale, naturalmente piena di tifosi di origine italiana numerosissimi nel “barrio”. Con questa squadra egli divenne molte volte campione d’Argentina, conquistandosi anche il posto da titolare nella Albiceleste e vincendo con essa il Campeonato Sudamericano de Football.
Egli rimaneva però poco noto in Europa, giacché giocava in anni in cui l’unico modo per un calciatore per essere conosciuto all’ estero era essere visto giocare dal vivo. Campione in patria da molto tempo, acquistò di colpo fama mondiale nelle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, quando si segnalò come il migliore giocatore del torneo.
Edoardo Agnelli, il primo della famiglia ad essere presidente della Juventus, lo volle assolutamente nella squadra che stava costruendo ed accettò di pagare una somma per il suo acquisto, ritenuta scandalosa all’epoca, anche se oggi non basterebbe ad acquistare una riserva. Orsi arrivò così a Torino indossando un cappotto sproporzionato per la sua snella figura, perché gli era stato prestato dal fratello: l’era dei Paperoni strapagati per buttare la palla dentro era lontana, lontanissima, quasi inimmaginabile. Non poté esordire subito nel campionato e fu costretto ad aspettare una stagione, perché, essendo straniero, aveva bisogno di vedersi riconoscere la cittadinanza italiana quale “oriundo”. Ottenutola, entrò a far parte di quella formazione passata alla storia come Grande Juventus, un undici titolare che, con pochissimi cambiamenti, vinse cinque scudetti consecutivi. Era una squadra che curiosamente, comprendeva cinque piemontesi e quattro oriundi italo-argentini ed in cui molti erano i veri talenti: l’atipico portiere Combi, non alto di statura, poco amante delle uscite, ma con senso della posizione e riflessi felini; il glaciale, intelligente, inappuntabile libero Rosetta; l’aggressivo ed impetuoso terzino Caligaris, che morì giocando a calcio per attacco cardiaco; il feroce e potente, eppure anche tecnico, centromediano Monti, terrore degli attaccanti avversari; il fulmineo centravanti “Farfallino” Borel, con le sue accelerazioni prodigiose con cui sembrava volare sul terreno ed i suoi tocchi subitanei, morbidi e maligni. Ma la vera stella della formazione si rivelò proprio lui, “Mumo”.
Magro e longilineo, con un peso forma di 66-68 chilogrammi per 1.70, Orsi giocava come ala classica, un attaccante puro ma posto sulla fascia. Egli era destro naturale, ma sapeva usare con la stessa identica bravura entrambi i piedi, ciò che gli aveva permesso di stare sulla fascia sinistra. Mumo era eccezionale sia nel controllo sia nel tiro.
Sul campo egli si muoveva simile ad un grosso gatto. Elegante nei movimenti, apparentemente indolente, celava gli artigli sotto la sornioneria ed all’ improvviso balzava, con uno scatto folgorante. Perfettamente ambidestro, con un controllo ed un palleggio impeccabili, Orsi si muoveva con fluidità. Sbarrargli la strada quando avanzava palla al piede era un’impresa, perché Orsi sapeva andare a destra ed a sinistra, saltare l’avversario d’esterno e d’interno e fare questo con entrambi i piedi, indifferentemente. Il marcatore non sapeva mai dove volesse andare ed in che modo. In più Mumo aveva un repertorio amplissimo di finte con il corpo, a cui seguiva uno scatto improvviso. I suoi marcatori a volte sbattevano gli uni contro gli altri nel tentativo di bloccarlo o finivano sbilanciati per terra. Un brutale difensore subì un grave infortunio senza essere stato neppure toccato: si avventò rabbiosamente sull’ argentino, che rispose con una finta che fece perdere l’equilibrio all’ aggressore e precipitarlo rovinosamente a terra. Orsi era un fuoriclasse anche nel tiro e nel lancio. Egli era in grado di trovare un compagno praticamente in ogni parte del campo, con traversoni, lanci, passaggi, anche lunghissimi. In più questo mirabile oriundo sapeva calciare con efficacia sia teso sia ad effetto, al punto da poter segnare diverse volte direttamente su calcio d’angolo. Anche se non era la sua specialità, sapeva segnare anche di testa.
Arruolato nella nazionale italiana, nella finale della coppa del mondo del 1934 pareggiò la rete della Cecoslovacchia con un piccolo saggio della sua maestria, battendo al volo un pallone e spedendolo sin da fuori area dritto all’angolo alto della porta. Giocando con l’Italia si intendeva a meraviglia con un certo Peppino Meazza, l’unico che fosse a lui paragonabile in quegli anni per talento.
Orsi era quindi un autentico, vero fuoriclasse. Aveva il solo difetto della paura del gioco duro, per cui cercava di sfruttare in maniera persino eccessiva le sue doti per evitare il più possibile i contrasti. Va detto d’altronde che quando lui giocava era comune tentare di mettere fuori causa gli avversari spaccandogli le ossa, alla lettera. Il terribile Luis Monti, un altro oriundo della Juventus del Quinquennio e della nazionale italiana, era soprannominato “El tigre” e fece uscire in barella più di un centravanti. La prudenza del buon Mumo aveva quindi le sue giustificazioni in un’era calcistica popolata da truculenti picchiatori.
Con la Juventus giocò 177 partite e segnò 76 reti, ma nessuno ha mai potuto contare quante ne abbia fatte segnare ai compagni.
Come uomo, Orsi era agli antipodi dell’arroganza e del narcisismo di molti altri divi del pallone. Era una persona simpatica, amichevole e scherzosa, priva di cattiveria ed assai aperta e socievole. Amava il tango e suonava il violino e, sebbene oriundo, sentiva un poco la nostalgia dell’Argentina, come poi accadde ad un altro italo-argentino con la maglia bianconera, quel Rinaldo Martino che sotto molti aspetti gli assomigliava.
Non più giovanissimo, preoccupato dai venti di guerra che correvano in Europa, con la madre malata e nostalgico di Buenos Aires, Orsi decise infine di ritornare in patria. Continuò a giocare ancora per alcuni anni, prima del ritiro.
Orsi chiudeva la carriera con un curriculum impressionante: 5 scudetti in Italia, 5 scudetti in Argentina, 1 in Uruguay, 1 in Brasile. Con le nazionali, vinceva 1 coppa del mondo, 2 coppe internazionali, 1 Campeonato Sudamericano de Football, 1 argento olimpico.
Anche se lontano, continuò però ad avere particolare affezione per la Juventus. Fu tra coloro che contribuirono a far sì che Sivori approdasse a Torino: ma questa è un’altra storia.
Marco Dellamula