12/04/2018
Un giorno Edoardo Agnelli lo trova in un ristorante in orario di allenamento. Gli fa mandare una bottiglia di champagne dal cameriere per ricordargli chi è che comanda. Cesarini gliene fa arrivare cinque, con tanto di biglietto. «Domani vinciamo e segno». Andrà così.
Il più matto, il più estroso giocatore che abbia vestito la maglia della Juventus, era venuto dall’Argentina senza incontrare quelle difficoltà che avevano ostacolato l’ingaggio del suo amicone Raimundo Orsi, perché era meno oriundo di lui: infatti, poteva essere considerato quasi italiano, essendo nativo di Senigallia. Soltanto dopo la sua nascita, i genitori avevano deciso di lasciare le Marche per trasferirsi in Sud America. L’estroverso Renato pareva costruito apposta, quasi fatto su misura per la disperazione del severissimo barone Mazzonis, che pure aveva caldeggiato la sua venuta in Italia, ma che era solito vigilare sulla buona condotta dei giocatori come un gendarme. Veniva diligentemente aiutato in quest’opera di vigilanza dall’allenatore Carcano, ancora più direttamente interessato di lui, com’era anche logico.
Gli aneddoti sulle mattane di Cesarini si sprecano, nemmeno il tempo li ha cancellati o scoloriti. Perché il Cè (così lo chiamavano nella squadra in cui il solo Combi non tollerò deformazioni al proprio nome), adorava i locali notturni, l’eleganza, le carte da gioco, le donne di classe, lo champagne. Era assolutamente disinvolto con lo smoking come in tenuta di gioco. Pagava sovente per tutti, elargendo denaro in allegria e pagando senza scomporsi tutte le multe che Mazzonis e Carcano gli facevano piovere addosso. Era talmente simpatico che in più di un’occasione qualche dirigente (come l’avvocato Tapparone, suo grande ammiratore), finiva per pagare la multa. Alla Juventus la disciplina veniva osservata e fatta osservare secondo una prassi ben precisa. In generale Carlo Carcano non interveniva mai di persona, limitandosi, in caso di necessità, ad attizzare lo sdegno dei dirigenti o addirittura della presidenza, fornendo gli estremi dei misfatti compiuti e accertati. Queste notizie o queste prove, Carcano se le procurava attraverso una fitta rete di informatori reclutati tra i ragazzini che prezzolava alla somma di un paio di lire per prestazione. I piccoli stavano appostati per ore in vicinanza delle abitazioni dei calciatori, attentissimi a riferire ogni entrata o uscita fuori ordinanza. Era una bella lotta, perché Cesarini aveva saputo la faccenda dei ragazzini e riusciva sovente a neutralizzarne l’opera, offrendo più soldi di quanto non facesse Carcano! Una volta informato il barone Mazzonis delle marachelle del Cè, l’allenatore se ne lavava le mani ed entrava in funzione il vicepresidente con un primo avvertimento amichevole verso chi aveva mancato. Se tale avvertimento cadeva nel vuoto, Mazzonis spediva l’avviso ufficiale, gelidamente formulato sotto l’invito a presentarsi in sede in tal giorno, di solito alle ore diciotto, per comunicazioni «che La riguardano». Proprio con la elle maiuscola. Le multe per le infrazioni più gravi erano di mille lire. Cesarini le pagava senza battere ciglio, ma qualche volta riusciva a scendere a patti: «Se gioco da campione e segno almeno un goal nella prossima partita (e in genere sceglieva una gara difficile), la multa viene cancellata!» E quasi sempre Cesarini riusciva ad ottenere la cancellazione della punizione.
Sul terreno di gioco, Cesarini sapeva essere protagonista. Innanzitutto non aveva paura di nessun avversario, perché era dotato di un fisico eccezionale: lo dimostrava anche in allenamento, durante la partita di metà settimana, dopo aver magari trascorso un paio di notti in bagordi. E poi Renato era in possesso di una tecnica personale e di un’intelligenza di gioco raramente riscontrabili. Aveva intuizioni tattiche tanto improvvise quanto felici; era, insomma, un campione completo. Era solito dire ai ragazzini: «Tu, ragasso, la pelota te la devi portare anche nel letto!».
Esordisce in maglia azzurra nel 1931, ma la indossa solo undici volte, troppo ribelle per Pozzo, che gli preferisce gente più solida. Però arriva quel minuto lì, straordinario e unico. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c’è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l’Italia gioca contro l’Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, 1-0, goal di Libonatti. Avar fa l’uno pari, Orsi riporta l’Italia in vantaggio ma Avar segna di nuovo: 2-2 al novantesimo. Tutto o niente da rifare. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. A un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per 3-2. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro». Renato a venticinque anni entra nella storia, ma non se ne accorge subito. Dovrà passare una settimana. Eugenio Danese è il primo giornalista a parlare di Zona Cesarini, quando il 20 dicembre l’Ambrosiana batte 2-1 la Roma con un goal di Visentin all’ottantanovesimo. In Zona Cesarini, appunto. Così si dice da allora, così indica lo Zingarelli. Sono tanti i giocatori famosi, ma Renato Cesarini detto Cè, nato sulle colline di Senigallia nel 1906 e morto a Buenos Aires nel 1969 è l’unico calciatore diventato un modo di dire.
Stefano Bedeschi